[prefazione di A. Anedda, Transeuropa, Massa 2010]
Opera “terza” di Mario Benedetti e volume inaugurale della meritoria collana «Nuova poetica» di Transeuropa, questo Materiali di un’identità partecipa, e con esiti senz’altro considerevoli, di quella feconda disposizione a una strutturazione composita, eterogenea e aperta dell’organismo-libro da più parti avvertita come necessaria nella recente vicenda della poesia italiana. Disposizione che richiama un pertinente assunto di Michel Deguy (del quale possiamo leggere da qualche anno un’ampia antologia poetica tradotta dallo stesso Benedetti) circa il compito della poesia nel “culturale”, ovvero in quella fase del capitalismo che estende l’omologia fin nel cuore delle differenze vissute nell’intimità: il compito, variamente declinabile e certo sempre in fieri, di inventare il testo differenziante della nostra epoca identificante. Non è però questa la cifra peculiare della ricerca di Benedetti.
Certo, gli aggregati testuali di cui il libro, altamente inclusivo, si sostanzia, variano dal saggismo bio-filosofico di La lacerazione del vertice alla prosa poetica; dai versi corredati, dantescamente, di “divisione” e commento, alla sezione dialogica, informale quasi, dell’intervista con Claudia Crocco. Un prosimetro o meglio satura che sa restituirci, anche in quanto corpo testuale, l’istanza differenziale di cui sopra senza tuttavia esaurirsi in essa: la qualità difforme, policentrica, non lineare dei materiali identitari è posta infatti dal poeta all’incrocio paradossale tra una causalità latamente storica – «la società e la cultura hanno sconnesso la gerarchia delle facoltà mentali» si legge a p. 37 – e una più drastica, relativistica accidentalità biologica dell’esperienza: lo «strazio», il «nulla» di quella che è «la superficie orizzontale delle nostre vite casuali e interscambiabili condotte da impulsi biochimici del tutto involontari».
È rispetto a questa «superficie», a questa relatività che Benedetti avverte – parlato a un tempo dal Rilke “duinese” e dal Bataille di L’esperienza interiore – tutta «l’insufficienza» conoscitiva «di una relazione che avviene sempre in uno stare di fronte alla cosa», in un’esteriorità facilmente manipolata, lo sappiamo (ma il passaggio resta del tutto implicito nel libro) da quel “pensiero operatorio” o pensiero dell’oggetto in generale descritto dall’ultimo Merleau-Ponty come tipico della filosofia della scienza: sarebbe in ciò sancita, per l’uomo, «la propria irriconoscibilità nel mondo». Il problema, allora, diviene quello dell’apertura a una profondità, a ciò che di inaccessibile al visibile le cose racchiudono: dar voce a qualcosa «che c’è», e nella sua caducità, ma «per fermarne su carta» l’eccedenza non immediatamente percepibile. Se, come è stato scritto, quella di Benedetti è una «poesia dipinta», lo è nel senso largo che Merleau-Ponty attribuiva all’attività del pittore: quel trarre, detto in breve, l’invisibile dal visibile e viceversa.
Non più parlando delle, ma dando voce alle cose nella loro finitezza e fragilità, una fragilità e finitezza completamente umane, la poesia di Benedetti può così alludere ad un «altrove» di senso che dette cose eccede, e sprofondarvisi fino ad abolire, nell’ultima sequenza emblematicamente titolata L’azzurro, i confini e le frontalità discorsive fra io e non-io, fra soggetto e oggetto, fra vita e morte. Zona insieme psichica e fisica il colore, secondo ne disse Cézanne, è il luogo dove s’incontrano il nostro cervello e l’universo. Ed è all’ostensione di una tale profondità metastorica, sottratta a qualsiasi dimensione sociale e valore d’uso che Benedetti ha astratto, in una sospensione del giudizio forse definitiva, la propria interrotta ed essenziale parola: «Ecco l’azzurro. […] Dillo».
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